Lo stato di abbandono e degrado in cui versa un bene non esclude che esso possa essere assoggettato a vincolo culturale

    Nell’ambito della tutela dei beni culturali, la Sezione Sesta del Consiglio di Stato, con sentenza del 9 maggio 2022 numero 3605, ha fornito alcuni importanti chiarimenti in ordine al quadro normativo applicabile in materia di tutela dei beni culturali.

    Massima

   Le ville vesuviane sono da ritenersi vincolate ex lege, indipendentemente da chi ne sia il proprietario, di modo che ai fini dell’applicazione della tutela predisposta dalla normativa generale su detti beni, è irrilevante accertare a chi spetti il diritto dominicale su di esse. La natura culturale del bene deriva direttamente dalle sue qualità intrinseche accertate dall’apposita commissione. Lo stato di abbandono e degrado in cui versa un bene non esclude che esso possa essere assoggettato a vincolo culturale e non comporta, per ciò solo, il venir meno della relativa tutela ma ciò non vale nell’ipotesi in cui il medesimo, a causa delle modifiche apportate, abbia oggettivamente perso quelle caratteristiche intrinseche che avrebbero consentito di attribuirgli valenza culturale giustificandone la protezione e ove non vi sia certezza riguardo il tempo dell’avvenuta trasformazione.
Pres. Montedoro, Est. Maggio

 

IL FATTO

  La vicenda trae origine dalla revoca di autorizzazione per l’installazione di una stazione radio base nel giardino della Villa Pignatelli Monteleone di Napoli.

   Più precisamente il comune di Napoli ha revocato, l’autorizzazione, di cui all’art. 87, comma 9, del D.Lgs. 1/8/2003, n. 259, rilasciata ad un operatore del settore, per l’installazione di una stazione radio base (SRB) a Napoli, in area catastalmente registrata e ha prescritto la dismissione delle opere già realizzate entro 90 giorni dalla ricezione del provvedimento.

   L’atto di ritiro è stato fondato sulla nota 29/5/2020, n. 5603-P con la quale la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Napoli, ha segnalato all’amministrazione comunale “che le aree individuate con le particelle n. 631 e 638 rivestono interesse storico artistico poiché facenti parte dell’originario parco della villa Pignatelli Monteleone, i cui confini sono rilevabili nella pianta Carafa del 1775, citata nella precedente certificazione 16009 del 5 dicembre 2019”.

   I menzionati atti, unitamente alle note della medesima Soprintendenza, sono stati ritenuti illegittimi dall’operatore di settore, che li ha, pertanto, impugnati con ricorso al T.A.R. Campania – Napoli il quale – con sentenza 8/6/2021, n. 3835- ha accolto il ricorso.

   Pertanto, avverso la sentenza n. 3835/21 hanno proposto appello il Ministero della Cultura, la Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Napoli e la Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Napoli.

   Per resistere al ricorso si sono costituiti in giudizio il Comune di Napoli e l’operatore di Settore.
Con successive memorie le parti appellate hanno ulteriormente argomentato le proprie tesi difensive.

 

   IL RAGIONAMENTO DEL CONSIGLIO DI STATO PER GIUNGERE ALLA DECISIONE

  Col primo motivo l’appellante denuncia l’errore commesso dal Tribunale nell’affermare che siccome l’Ente ville vesuviane non sarebbe proprietario della villa in questione, e non sarebbe noto a chi essa appartenga “…il vincolo non può ritenersi provato…” Difatti, tutte le ville vesuviane, tra cui quella in questione, anche se non di proprietà dell’Ente per le ville vesuviane, sarebbero da ritenersi vincolate ex lege, laddove, come nella specie, ricomprese nell’elenco di cui al D.M. 19/10/1976, adottato ai sensi dell’art. 13 della L. 29/7/1971, n. 578.
Si tratterebbe, dunque, di un bene culturale individuato dalla stessa legge da ultimo citata.
D’altra parte, non sarebbe stato addotto nemmeno un principio di prova, in ordine all’appartenenza della villa a un privato e se anche così fosse si tratterebbe, comunque, di un immobile sottoposto a vincolo culturale, come tale soggetto alla relativa tutela.

Col secondo motivo si lamenta che il giudice di prime cure, nell’escludere la sussistenza del vincolo ex lege, avrebbe malamente interpretato la norma di cui all’art. 4 della L. n. 1089/1939, secondo cui sono soggette alla tutela prevista dalla detta normativa i beni di “spettanza” dei soggetti pubblici ivi contemplati. Contrariamente a quanto affermato in sentenza, infatti, il termine “spettanza” non andrebbe ricondotto nell’alveo dell’istituto giuridico della proprietà, ma avrebbe un significato più ampio, tale da ricomprendere anche beni diversi da quelli di proprietà pubblica.

 Secondo il Consiglio di stato, nella sentenza in oggetto “le doglianze cosi riassunte, che si prestano a una trattazione unitaria, meritano accoglimento ai soli fini della modifica del percorso motivazionale anche se la sentenza – come si vedrà andrà poi confermata con diversa motivazione, stante il rigetto del terzo motivo di appello del Ministero. Ciò in applicazione del principio per cui le eventuali contraddizioni o le illogicità del ragionamento decisorio che sorregga una pronuncia del giudice di primo grado di per sé giammai potrebbero condurre a una riforma, per ciò solo, del provvedimento giurisdizionale impugnato; e ciò in considerazione della peculiare efficacia della sentenza di appello” pertanto ciò “può rilevare per i fini impugnatori è unicamente la verifica della condivisibilità, o no, delle statuizioni avversate, spettando per il resto alla motivazione della decisione del giudice di secondo grado, investito dei medesimi poteri cognitori e decisori del Tar, risolvere eventuali criticità della prima sentenza (Cga n. 53 del 2015).

   Il percorso motivazionale seguito dal Consiglio di Stato prende le mosse dalla normativa: “l’invocata L. n. 587/1971, “Allo scopo di provvedere alla conservazione, al restauro e alla valorizzazione del patrimonio artistico costituito dalle ville vesuviane del secolo XVIII” (art. 1) ha istituito un apposito soggetto pubblico, l’Ente per le ville vesuviane, a cui ha attribuito il compito di provvedere “a norma di quanto disposto dalla presente legge e con riferimento alle ville indicate nell’elenco approvato ai sensi del terzo comma dell’articolo 13, in concorso con il rispettivo proprietario o, quando necessario, in sua sostituzione:
a) all’esecuzione di opere di restauro e di consolidamento degli immobili, ovvero all’acquisto o alla espropriazione di ville; b) alla valorizzazione di tutto il patrimonio artistico, costituito dalle ville con i relativi parchi o giardini, ed alla destinazione delle ville di proprietà dell’ente a biblioteche, sale di lettura, musei, mostre d’arte o ad altro uso compatibile con la natura del bene artistico; c) ai lavori di pronto intervento necessari per evitare danni irreparabili alle strutture ed agli elementi decorativi delle ville; d) a studi e pubblicazioni attinenti ai compiti di istituto” (art. 2). L’art. 13 della medesima legge dispone, poi, che: a) l’apposita commissione ivi contemplata provveda alla “ricognizione delle ville vesuviane del secolo XVIII, avente lo scopo di rilevare le condizioni di ciascuna, di compilare l’elenco di quelle suscettibili di restauro e di indicare i lavori necessari per le relative opere” (comma 1);
b) l’elenco, sia approvato dal Ministero e pubblicato nella Gazzetta ufficiale (comma 3). c) “Nei confronti degli immobili inscritti in tale elenco si applicano le disposizioni di cui ai successivi articoli della presente legge; i relativi lavori di restauro e di consolidamento sono dichiarati di pubblica utilità” (comma 5).

  Dalla lettura della normativa il Giudice d’Appello deduce chele ville vesuviane incuse nell’apposito elenco approvato dal Ministero, indipendentemente da chi ne sia proprietario, fanno parte, ex lege, del “patrimonio artistico”.

    Inoltre il Consiglio di Stato “rileva che, l’art. 1, comma 3, della L. 1/6/1939 n. 1089 – con disposizione ripresa prima dall’art. 2, comma 2, lett. f), del D. Lgs. 29/10/1999, n. 490 e poi dall’art. 10, comma 4, lett. f), del D. Lgs. 22/1/2004, n. 42 – elenca tra i beni culturali “le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico”. Il successivo art. 2, comma 1, della stessa L. n. 1089/1939 – anche in questo caso con norma ripresa prima dall’art. 2, comma 1, lett. b), del D. Lgs. n. 490 del 1999 e poi dall’art. 10, comma 3, lett. d), del D. Lgs. n. 42 del 2004 – prevede, inoltre, che sono, altresì, sottoposte a tutela “le cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, siano state riconosciute di interesse particolarmente importante …”. Orbene, dall’illustrato quadro normativo emerge che la L. n. 578/1971, per identità di finalità e funzioni, si pone come normativa speciale rispetto a quella generale, in tema di tutela dei beni culturali, dettata dalla L. n. 1089/1939 e successivamente dai D. Lgs. nn. 490/1999 e 42/2004. La previsione degli interventi e sussidi pubblici e dei particolari obblighi di fare espressamente contemplati dalla L. n. 578/1971 (artt. 14 e segg.), logicamente presuppone l’insistenza di quelli di non fare di cui alla legge generale e delle specifiche tutele da questa accordate ai beni culturali (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 6/5/2013, n. 2420). Nell’impostazione della menzionata legge speciale, la natura culturale del bene deriva, dunque, direttamente dalle sue qualità intrinseche accertate dall’apposta commissione chiamata, all’uopo, a formulare un apposto elenco delle ville da tutelare da sottoporre all’approvazione del Ministero ai sensi del menzionato art. 13, comma 3.

    Dalle esposte considerazioni discende, pertanto, che le ville vesuviane incluse nel suddetto elenco, nella specie approvato con D.M, 19/10/1976 e pubblicato nella G.U. del 7/1/1977, costituiscono beni culturali ex lege, indipendentemente da chi ne sia il proprietario, di modo che ai fini dell’applicazione della tutela predisposta dalla normativa generale su detti beni, è irrilevante accertare a chi spetti il diritto dominicale su di esse.
Poiché è incontestato che la villa “Pignatelli Monteleone” faccia parte dell’elenco di cui al suddetto D.M. 19/10/1976, la stessa deve ritenersi soggetta al vincolo culturale ex lege e come tale sottoposta alle relative norme di protezione qualunque sia il suo regime proprietario.

   Esaurita l’argomentazione sui primi motivi d’appello il Consiglio di Stato si sofferma sul terzo motivo per collegarlo logicamente al quarto motivo.

   “Col terzo motivo si critica l’impugnata sentenza, nella parte in cui ha ritenuto che il pregresso valore culturale non sia più percepibile in conseguenza dello stato di abbandono del bene e della massiccia trasformazione edilizia e urbanistica subita dai luoghi. E invero, secondo la giurisprudenza, lo stato di abbondono o di degrado del bene non farebbe venire meno l’interesse alla tutela. In ogni caso il giudizio circa la valenza culturale di un immobile di proprietà pubblica metterebbe capo a un potere altamente discrezionale, per cui la contestata affermazione giudiziale sconfinerebbe nel merito della valutazione compiuta dall’amministrazione. La sentenza risulterebbe, altresì, viziata laddove afferma che l’insussistenza del vincolo si ricaverebbe anche dal fatto: << … che esso riguarderebbe non l’edificio della villa Pignatelli Monteleone, bensì il giardino di questa (nel cui ambito sarebbe allocata la Stazione Radio Base): ma nessuna prova circa l’effettiva esistenza di tale giardino in tempi moderni risulta addotta dalle parti pubbliche, posto che il riferimento alla “Pianta Carafa” del 1775 non può all’uopo essere sufficiente (essa, al più potrebbe dimostrare l’esistenza del giardino quasi due secoli prima dell’emanazione della normativa vincolistica), anche tenuto conto che all’attualità l’area in questione risulta urbanizzata e avente più destinazioni diverse (tra cui anche a strada) incompatibili con quella a giardino>>. Infatti, il vincolo identificherebbe esattamente i confini bel bene soggetto a tutela comprendendovi l’intera area pertinenziale della villa e, quindi, del giardino, come si ricaverebbe dalla documentazione di riferimento che confermerebbe l’omogeneità del contesto vincolato. La doglianza mossa dal Ministero avverso la sentenza è, sul punto, infondata”. Al riguardo il giudice di secondo grado evidenzia che l’operatore “ha affermato, senza essere smentita, che l’area su cui sorge la SRB non è situata “nell’originario parco della Villa Pignatelli Monteleone”, ma in un ambito di antica edificazione che del “parco” non conserva più alcuna reminiscenza, come si ricava dalla non contestata documentazione prodotta in giudizio, la quale evidenzia uno stato dei luoghi caratterizzato dalla presenza di edifici e infrastrutture viarie. A tal proposito, come correttamente ritenuto dal giudice di prima istanza, è insufficiente, sotto il profilo probatorio, ogni riferimento alla “Pianta Carafa del 1775”, dato che la stessa “al più potrebbe dimostrare l’esistenza del giardino quasi due secoli prima dell’emanazione della normativa vincolistica”, ma non è idonea, data la trasformazione subita dai luoghi, a comprovarne la perdurante presenza. È vero, come sostiene parte appellante, che lo stato di abbandono e degrado in cui versa un bene non esclude che esso possa essere assoggettato a vincolo culturale e non comporta, per ciò solo, il venir meno della relativa tutela (cfr., Cons. Stato, Sez VI, 14/10/2015, n. 4747; 16/7/2015, n. 3560; 8/4/2015, n. 1779; 27/11/2012, n. 5989; 11/6/2012, n. 3401), ma ciò non vale nell’ipotesi in cui il medesimo, a causa delle modifiche apportate, abbia oggettivamente perso quelle caratteristiche intrinseche che avrebbero consentito di attribuirgli valenza culturale giustificandone la protezione e, soprattutto, come nella specie, ove non vi sia certezza riguardo il tempo dell’avvenuta trasformazione ( che potrebbe essersi verificata anteriormente all’imposizione del vincolo) e l’estensione del vincolo ( che pur potendosi logicamente estendere al giardino non è determinato precisamente nella sua estensione e potrebbe – ipoteticamente – esser fatto oggetto di eventuali approfondimenti collegati ad un piano di recupero che esula però dall’oggetto del contenzioso e si proietta in una futura azione amministrativa che non può in alcun modo rilevare nel processo). Il ché è quanto si è verificato nel caso di specie, laddove dell’originario giardino o parco della villa non si rinviene più traccia. Peraltro, al di là della citata “Pianta Carafa del 1775”, l’amministrazione appellante non ha prodotto alcun altro atto o documento idoneo a dimostrare né l’estensione del giardino, né l’esistenza di un collegamento pertinenziale dell’area di che trattasi con la villa, elemento questo necessario per estendere ad essa il regime vincolistico del fabbricato. Il che conferma il difetto d’istruttoria rilevato dal Tribunale.
La reiezione della censura da ultimo affrontata consente di prescindere dall’esame del quarto motivo d’appello con cui si critica la gravata sentenza nella parte in cui ha: a) qualificato l’atto di riesame impugnato come annullamento d’ufficio, pur in assenza di una specifica contestazione da parte della ricorrente in ordine al nomen iuris (revoca) utilizzato; b) affermato che lo stesso dovesse essere motivato con riguardo all’accordata prevalenza dell’interesse pubblico al ritiro rispetto a quello privato al mantenimento dell’atto; c) ritenuto che dovessero essere esplicitate le ragioni della ravvista incompatibilità del vincolo con la realizzazione dell’impianto. Difatti, una volta escluso che l’invocato vincolo culturale incida anche sull’area su cui è stata installata la SRB, il provvedimento di ritiro gravato perde la base su cui fonda, con conseguente irrilevanza degli ulteriori vizi riscontrati dal giudice di prime cure”

    Infine il quinto motivo con il quale si denuncia l’errore commesso dal Tribunale nel non rilevare il difetto di legittimazione passiva dell’intimata Sovrintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio, per l’Area Metropolitana di Napoli, spettando, invece, la detta legittimazione alla Sovrintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Napoli viene dichiarato infondato e questo perché: “L’art. 11, comma 1, del R.D. 30/10/1933, n. 1611 (T.U. delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato), applicabile anche ai giudizi amministrativi in base all’art. 10 della L. 3/4/1979, n. 103, dispone: “Tutte le citazioni, i ricorsi e qualsiasi altro atto di opposizione giudiziale, nonché le opposizioni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative o speciali, od innanzi agli arbitri, devono essere notificati alle Amministrazioni dello Stato presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’Autorità giudiziaria innanzi alla quale è portata la causa, nella persona del Ministro competente”. Orbene “il ricorso di primo grado, conformemente a quanto stabilito dalla trascritta norma, è stato notificato, oltre che alla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Napoli, anche al Ministero della Cultura, in persona del Ministro in carica, per cui il contradditorio risulta correttamente instaurato, senza che occorresse notificare l’atto introduttivo del giudizio anche alla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Napoli, organo periferico del suddetto dicastero, carente di legittimazione propria. L’evocazione in giudizio della Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Napoli si risolve, dunque, in una mera irregolarità priva di conseguenze sul piano processuale. Peraltro, giova soggiungere che, ai sensi dell’art. 4, della L. 25/3/1958, n. 260, l’eventuale carenza di legittimazione passiva dell’organo dello Stato convenuto in giudizio avrebbe dovuto essere eccepita dall’Avvocatura dello Stato nella prima udienza utile del giudizio di primo grado, con la contestuale indicazione dell’organo effettivamente legittimato, sicché, in difetto di tempestiva eccezione, resta preclusa la possibilità di far valere, successivamente, l’irrituale costituzione del rapporto giuridico processuale ed è, inoltre, impedito al giudice di rilevare d’ufficio l’erronea individuazione del soggetto da evocare in giudizio (Cass. Civ., Sez. Lav., ord., 20/10/2020, n. 22802).

    In conclusione “L’appello va, in definitiva, respinto, ben potendo la gravata sentenza sorreggersi sulla parte di motivazione ritenuta esente dai vizi dedotti. Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi o eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso”.

 

 

Immagine del web

 

 

 

 

Pubblicato da evasimola

Il blog è diretto dalla dottoressa Eva Simola presidente dell'Associazione "Legalità Sardegna" [email protected] codice fiscale 91027470920 Cellulare +393772787190