separasi dal coniuge infedele, sì ma…con addebito?

(28/09/2016)

L’adulterio, da secoli, ha riguardato prevalentemente le condotte di uomini sposati spesso spinti al matrimonio da scelte razionali superate, nel quotidiano, da esigenze più emotive e quindi coincidenti con i reali bisogni personali. Purtuttavia il fenomeno interessa anche il mondo femminile per sua natura più fantasioso e curioso: nella maggior parte dei casi sono donne “annoiate” da sposi-bambini o sempre insoddisfatte. Questo significa che molte persone si trovano a convivere con partner infedeli spesso ignare della doppia vita dei loro compagni/e o solo troppo spaventate all’idea di interrompere una relazione che, seppur con questo elemento, permette loro di avere delle gratificazioni. Non tutti i “traditori” vivono sentimenti di “colpa” che li portano ad essere particolarmente gentili con il proprio coniuge infatti, alcuni, amano vessare l’altro con varie forme di offesa tra le quali spesso si usa rinfacciare le “scappatelle” e le relative capacità dell’amante, un tipo di umiliazione particolarmente sottile capace di minare nel profondo l’autostima della persona. In questi casi, laddove si capisca che il rapporto è malato e non recuperabile si può decidere di separasi valutando se sia “vantaggiosa” una domanda di addebito nel ricorso .

L’art. 151 cc stabilisce che “il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio“.  I diritti e i doveri reciproci dei coniugi sono definiti dall’art. 143, primo comma, del codice civile secondo il principio di uguaglianza (il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti ed assumono gli stessi obblighi) che il legislatore ha ritenuto di assicurare al fine di evitare una gerarchia di poteri o di una distribuzione degli stessi tra i coniugi, (l’art. 2 e l’art. 3 Cost., i quali si pongono in stretta correlazione con gli artt. 29 e 30 Cost.) anche se l’elencazione di cui all’art. 143 c.c., non è esaustiva; ulteriori norme all’interno dell’ordinamento prevedono obblighi in capo ai coniugi la cui violazione può assumere rilevanza ai fini dell’addebito (così, ad esempio, l‘art. 144 c.c).

Gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio. Tale disposizione, contenuta nell’articolo 160 del codice civile, sia pure nell’ambito del regime patrimoniale della famiglia, ha senza dubbio una portata di ordine generale, in quanto ribadisce l’inderogabilità e l’indisponibilità di tutte le posizioni soggettive, attive o passive che nascono nell’ambito del rapporto matrimoniale.

Il secondo e il terzo comma dell’art. 143 cc, stabiliscono, tra i coniugi l’obbligo della fedeltà, dell’assistenza morale e materiale, della collaborazione, della coabitazione (“dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà dell’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”) nonché il dovere di contribuzione (“entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo a contribuire ai bisogni della famiglia”).

La fedeltà non consiste soltanto nell’astensione dai rapporti sessuali (o da rapporti sentimentali) con persona diversa dal coniuge: fedeltà è “dedizione fisica e spirituale” che dura quanto il matrimonio e non viene meno per infermità, limite di età o altro impedimento al debito coniugale corporale (Santoro Passarelli, sub art. 143, 507/C. 9287/1997; T. Bari 13.7.2007). Secondo parte della giurisprudenza la violazione dell’obbligo di fedeltà, soprattutto se attuata tramite ripetuti comportamenti, rappresenta una violazione particolarmente grave dei doveri coniugali, tale da determinare normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza e, quindi, sufficiente a giustificare la pronuncia di addebito della separazione al coniuge responsabile (Così T. Cassino 23.6.2016.)

Esiste, però, la necessità di valutare caso per caso le violazioni del dovere de quo, infatti, a proposito dell’adulterio, la giurisprudenza ha escluso che possa essere considerato, di per sé, causa di addebito della sentenza di separazione, dovendosi verificare se effettivamente abbia determinato l’intollerabilità della convivenza (C. 1099/1990; C. 4767/1987; di recente, v. C. 8862/2012) e come, dunque, abbia inciso sulla vita familiare, tenuto conto delle modalità e della frequenza dei fatti, dell’ambiente in cui si sono verificati, della sensibilità morale degli interessati (C., S.U., 2494/1982). Peraltro, non vale ad escludere la rilevanza della infedeltà la qualificazione della stessa quale reazione a comportamenti dell’altro coniuge, non essendo possibile una compensazione delle responsabilità nei rapporti familiari, e potendo, invece, essere addebitata la separazione a entrambi i coniugi, ove sussistano le relative domande (C. 7859/2000). Occorre, insomma, una valutazione globale e comparativa dei comportamenti di entrambi i coniugi al fine di verificare gli elementi che, in concreto, hanno influito sulla genesi della separazione (C. 25618/2007; C. 13592/2006; C. 8512/2006; C. 20536/2005; 6276/2005). Tuttavia, si è rilevato che anche una frequentazione che non integri una effettiva violazione del dovere di fedeltà può costituire motivo di addebito, allorquando sia posta in essere con modalità che, facendo ipotizzare la sussistenza di una relazione extraconiugale, per ciò solo, ed anche in difetto di effettivo adulterio, costituiscano motivo di offesa al decoro ed alla dignità del coniuge (C. 3511/1994; C. 26/1991; C. 5080/1982;A. Genova 18.1.2008).

Sull’onere probatorio è recentemente  intervenuta la Cassazione (C. 2059/2012), per la quale “grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge, l’onere di provare la relativa condotta, e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza“; “mentre, è onere di chi eccepisca l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà“.

In ogni caso, eliminate dall’ordinamento le sanzioni penali previste per l’adulterio ed il concubinato (C. Cost. 3.12.1969, n. 147; C. Cost. 19.12.1968, n. 126), si esclude che la violazione dell’obbligo di fedeltà possa di per sé integrare il delitto di cui all’art. 570 c.p. in materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare (C. pen. 4.7.2000, n. 9440; C. pen. 12.4.1983; C. pen. 18.2.1980, n. 6067).

La violazione di siffatto dovere,  può dar luogo ad un’azione autonoma, tesa ad ottenere la riparazione dei danni non patrimoniali, a prescindere dai rimedi propri del diritto della famiglia (la pronunzia, così, s’inserisce sul solco tracciato da C. 9801/2005).

In estrema sintesi quindi, in considerazione dei rilevanti effetti conseguenti alla pronuncia di addebito, la giurisprudenza ritiene in primo luogo necessari comportamenti coscienti e volontari (in questo senso anche la dottrina: F. Galgano, Trattato di diritto civile, I, III ed., Padova, 2015, 680) connotati da una certa gravità ovvero comportamenti che, sebbene singolarmente irrilevanti, se valutati nel loro insieme siano idonei a dar luogo a situazioni di abuso e prevaricazione, con conseguente esclusione di tutti quei comportamenti di mera conflittualità che accompagnano la crisi di coppia.  E’ altresì rimessa al giudice una valutazione complessiva del rapporto tra i coniugi, compiuta avendo riguardo non solo alle regole che disciplinano la vita coniugale ma anche agli impegni assunti in ordine al contenuto e all’adempimento di tali doveri (Cass. 20 giugno 2013, n. 15486). Inoltre il giudice dovrà valutare i comportamenti di entrambi i coniugi al fine di verificare se, a fronte della reciproca violazione dei doveri derivanti dal matrimonio, il comportamento di un coniuge possa considerarsi quale reazione proporzionata al comportamento dell’altro, ossia, quale conseguenza di una frattura coniugale già consumatasi e possa, pertanto, ritenersi giustificato. Anche se, la violazione dei doveri coniugali, ancorché qualificabile quale reazione alla condotta dell’altro coniuge, sarà inidonea a consentire l’esclusione dell’addebito allorché abbia comportato la lesione di beni e di diritti fondamentali della persona (Cass. 7 dicembre 2011 n. 26379).

E’ bene ora soffermarsi su quelli che sono gli effetti della separazione legale. Sotto il profilo dei rapporti patrimoniali dei coniugi – oltre a quanto si dirà tra breve in relazione all’assegno di mantenimento – si deve ricordare, anzitutto, che la separazione comporta lo scioglimento della comunione legale (art. 191), mentre non incide sul fondo patrimoniale (artt. 167 ss.) né sull’impresa familiare (art. 230 bis). Inoltre occorre considerare gli effetti di diritto ereditario della separazione: mentre la separazione senza addebito non comporta variazioni con riguardo al diritto alla successione del coniuge superstite, il coniuge separato con addebito non ha diritti successori pieni sull’eredità dell’altro coniuge, ma ha solo diritto ad un assegno vitalizio se, al momento dell’apertura della successione, godeva degli alimenti legali a carico del coniuge deceduto (art. 548, 2° co.). Il coniuge separato ha infine diritto alla pensione di reversibilità e alle indennità previste a favore del coniuge superstite, nonché alle indennità di cui agli artt. 2118 e 2120 (2122). La Consulta, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, L. 30.4.1969, n. 153 (che  escludeva il coniuge separato per sua colpa dal diritto a percepire la pensione di reversibilità) per violazione del principio di uguaglianza (C. Cost. 28.7.1987, n. 286; il principio è stato anche recentemente ribadito dalla Suprema Corte: C. 11428/2004; C. 15516/2003). In argomento, occorre anche segnalare C. Cost. 30.7.1997, n. 284, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 81, 4° co., D.P.R. 29.12.1973, n. 1092 (testo unico sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), nella parte in cui esclude il diritto alla pensione di reversibilità in favore del coniuge, al quale la separazione sia stata addebitata, qualora a questo spettasse il diritto agli alimenti a carico del coniuge poi deceduto.

A differenza di quanto previsto a favore dell’ex coniuge dalla legge sul divorzio (art. 12 bis, L. 1.12.1970, n. 898), il coniuge separato non ha alcun diritto ad una quota del trattamento di fine rapporto percepito dall’altro coniuge: il principio è stato recentemente ribadito dalla Corte costituzionale, che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 bis, L. divorzio, sollevata in relazione alla mancata previsione di tale diritto in favore del coniuge separato (C. Cost., ord. 19.10.2009, n. 261).

In difetto di figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti conviventi con i coniugi, sia che la casa familiare sia in comproprietà tra i coniugi, sia che appartenga in via esclusiva a un solo coniuge, il giudice non può adottare, con la sentenza di separazione, un provvedimento di assegnazione della casa coniugale. In tale senso, infatti, non è autorizzato dall’art. 156 cc, che non prevede tale assegnazione in sostituzione o quale componente dell’assegno di mantenimento; ne consegue che in mancanza di una normativa speciale in tema di separazione, la casa familiare in comproprietà è soggetta alle norme sulla comunione, al cui regime dovrà farsi riferimento per l’uso e la divisione (T. Foggia, Sez. I, 14.2.2012).

Per quanto attiene all’assegno di mantenimento si deve evidenziare che il 1° co. dell’art. 156 cc prevede che il giudice possa stabilire a favore del coniuge, al quale non sia addebitata la separazione, un contributo al mantenimento posto a carico dell’altro coniuge. Il richiamo al concetto di mantenimento comporta la necessità di far riferimento, nella valutazione dei presupposti del contributo, non già ad una situazione di bisogno, bensì alla mancanza di redditi sufficienti ad assicurare al coniuge il tenore di vita di cui godeva durante la convivenza matrimoniale (per la rilevanza del tenore di vita con riguardo alla sussistenza del diritto all’assegno, in giurisprudenza, cfr., ad es., C. 21097/2007;C. 5762/1997). È pacifico infatti che la nozione di mantenimento è diversa, e ben più ampia, rispetto a quella di alimenti (artt. 433 ss.), che spettano anche al coniuge al quale la separazione sia stata addebitata, se si trovi in stato di bisogno (artt. 433 ss.).
Dottssa Eva Simola

Pubblicato da evasimola

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