Diritto di critica e diffamazione a mezzo stampa: Celentano/Mori vs Amadori

   (20/10/2016)

   Il 20 luglio 2016 la Quinta sezione penale della Cassazione (n. 36838 /2016) ha assolto il giornalista di Panorama, Giacomo Amadori, dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa nei confronti del cantante Adriano Celentano e di sua moglie, Claudia Mori. Per la Cassazione “il fatto non costituisce reato”. L’assoluzione, in totale riforma della sentenza emessa in primo grado e a conferma della sentenza della Corte d’Appello di Milano del 20 maggio 2015, è arrivata dopo undici anni dalla pubblicazione dell’articolo, nel febbraio del 2005, che i due artisti considerarono lesivo della loro reputazione. La sentenza in commento permette di analizzare il delitto di diffamazione a mezzo stampa.

Sommario. 1. Il fatto. – 2. Il delitto di diffamazione. – 3. Diritto di cronaca. – 4. Diritto di critica. -5 La decisione della Suprema Corte.

  1. Il fatto

   La Corte d’appello di Milano, in totale riforma di quella emessa dal locale Tribunale, ha assolto Amadori Giacomo dal reato di diffamazione a mezzo stampa perché ” il fatto non costituisce reato“.

   Amadori era l’autore di un articolo, apparso sul settimanale “Panorama”, dal titolo “Ritratto di famiglia in un inferno“, ritenuto lesivo della reputazione di Celentano Adriano e della moglie Mori Claudia, perché commentava, con taglio denigratorio, fatti della vita privata dei due, idonei a dare di loro una rappresentazione distorta, con riguardo ai rapporti di famiglia e alla coerenza dei comportamenti privati di Celentano rispetto alle esternazioni pubbliche

   Per la Corte d’appello, l’articolo era da qualificare sia di cronaca che di critica in quanto nello stesso venivano riportati fatti veri, con linguaggio contenuto, attinenti alla vita privata delle persone offese già resi pubblici, per il tramite di interviste rilasciate in passato, dagli stessi figli della coppia, la cui rilevanza pubblica è conseguenza sia della notorietà delle persone offese che della diffusività data alle stesse dagli interessati. Di conseguenza, si poteva concludere che il diritto di critica era stato correttamente esercitato. Quanto al titolo, la Corte territoriale ha ritenuto che lo stesso fosse, inutilmente offensivo, ma ha escluso una responsabilità di Amadori per mancanza di prova circa un contributo di quest’ultimo alla sua formazione.

   Contro la sentenza suddetta, il difensore delle parti civili, ha proposto ricorso per Cassazione .

   2. Il delitto di diffamazione

   La Corte di Cassazione, ha affermato in diverse sentenze, come oggetto della tutela penale del delitto di diffamazione è l’interesse dello Stato all’integrità morale della persona: il bene giuridico è, più specificamente, dato dalla reputazione dell’uomo, che altro non è se non la stima diffusa nell’ambiente sociale, l’opinione che gli altri hanno del suo onore e decoro.

    L’elemento oggettivo del reato de quo implica tre requisiti: il primo consiste nell’assenza dell’offeso, il secondo è costituito dall’offesa all’altrui reputazione, il terzo concerne la modalità di comunicazione, nel senso che l’offesa deve essere comunicata a più persone

   La diffamazione è un reato istantaneo che si consuma con la comunicazione con più persone lesiva della reputazione; per quanto riguarda la diffamazione a mezzo stampa, la Suprema Corte ha avuto modo di statuire che il momento consumativo è quello della consegna da parte dello stampatore delle prescritte copie, in adempimento dell’obbligo previsto dalla L. 2.2.1939, n. 374, essendo questo il momento della pubblicazione in senso tecnico dello stampato.

   A parere di C., Sez. I, 26.11.2002, è da considerarsi locus commissi delicti il luogo c.d. “di prima diffusione”, vale a dire quello della stampa poiché sussiste una ragionevole presunzione che, non appena lo stampato sia uscito dalla tipografia, si verifichi immediatamente la possibilità che altre persone possano leggerlo e, di conseguenza, una sua potenziale diffusione.

   La dottrina ha avuto modo di affermare come per la diffamazione non può ritenersi necessario l’animus diffamandi, inteso come fine di ledere la reputazione di un’altra persona, perché l’art. 595, al pari del precedente, non esige un dolo specifico. Bisogna, quindi, in applicazione del concetto generale di dolo, ritenere che per la sua esistenza basti che il colpevole abbia voluto l’azione (comunicazione dell’addebito offensivo a più persone) e, nel tempo stesso, si sia almeno reso conto del discredito che col suo operato egli ha cagionato o poteva cagionare all’altrui reputazione. Anche per la diffamazione va esclusa ogni presunzione di dolo.

   Per la dottrina maggioritaria la diffamazione a mezzo stampa costituisce un’aggravante del delitto mentre  per una parte minoritaria, trattasi di elemento costitutivo di un reato speciale in confronto alla diffamazione comune (Nuvolone, Il diritto penale, 31)

   La diffamazione a mezzo stampa, può consistere anche nell’autonoma efficacia e suggestione del titolo rispetto al testo, specie quando il titolo travisi ed amplifichi un testo veritiero ( C., Sez. V, 30.1.2002, in cui si fa riferimento al caso in cui il titolo dell’articolo che contiene la notizia presenti l’accadimento di un fatto senza riferimento alla fonte o alla forma in cui è stato prospettato). La Corte di Cassazione ha, inoltre, più volte sottolineato, sempre in relazione al medesimo tema, come per individuare il contenuto diffamatorio dell’informazione occorre valutare non solo il testo letterale dell’articolo pubblicato, ma anche il complesso dell’informazione rappresentato dal testo, dalla sua interpretazione, dalle immagini che l’accompagnano, dai titoli e sottotitoli, dal modo di presentazione e da ogni altro elemento utile (C., Sez. V, 5.11.2004). Ad es. è stato affermato che l’inserimento di un servizio fotografico, in sé non osceno, riguardante un noto personaggio dello spettacolo, in una rivista pornografica si può ritenere offensivo della reputazione mentre, nel caso in cui esso venga inserito in una rivista definibili come “erotica”, scandalistica e di costume, ma non pornografica, non è possibile pervenire alle stesse conclusioni in quanto in tal caso non è riscontrabile un generale giudizio negativo per le modelle fotografate (C., Sez. V, 6.4.2005).

   Di notevole interesse è la conclusione della la Suprema Corte, secondo la quale se per effetto dell’accorpamento di due o più notizie di per se stesse vere si produce una nuova notizia o una specificazione di quelle già date, dovrà indagarsi sulla loro verità, poiché mancando tale requisito potrà integrarsi il delitto di diffamazione (C., Sez. V, 24.3.1995; C., Sez. V, 18.11.2004). Il giornalista, pertanto, può operare accostamenti tra notizie vere, a condizione che esse non producano un ulteriore significato che trascenda la notizia stessa, acquisendo autonoma valenza lesiva (C., Sez. V, 16.12.2014, n. 3893). Ancora, è lecito per un giornalista ricorrere ad un linguaggio particolare allo scopo di stimolare l’attenzione dei lettori, ma non fino al punto di stravolgere il nucleo semantico delle espressioni da lui utilizzate, poiché il significato di un termine deve rimanere quello che ad esso viene attribuito dalla consuetudine linguistica e, se necessario, dall’opinione degli studiosi (C., Sez. V, 19.3.2003). Il giornalista ha sempre il dovere di riferire i fatti utilizzando espressioni che non siano sproporzionate rispetto ai fini del concetto da esprimere e alla controllata forza emotiva suscitata della polemica, pur potendosi far ricorso a parole sferzanti, nella misura in cui siano correlate al livello della polemica ed ai fatti narrati e rievocati (C., Sez. I, 5.11.2014, n. 5695).

3. Il diritto di cronaca

   Il diritto di cronaca trova fondamento nell’art. 21 Cost. come forma di manifestazione del pensiero

   Di norma, i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero sono rappresentati dal rispetto di quei diritti inviolabili che l’art. 2 Cost., fin dalla sua nascita, si è incaricato di accogliere e garantire a cominciare da concetti come onore, decoro, reputazione. Diritti della persona che l’ordinamento tutela attraverso la previsione di reati come l’ingiuria (art. 594 c.p.) e la diffamazione (art. 595 c.p.) e, nel conflitto tra manifestazione del pensiero e diritto inviolabile, è sempre quest’ultimo a prevalere.

   Non così per il diritto di cronaca espressione della libertà di pensiero nonché insostituibile strumento di informazione al servizio esclusivo della collettività: il reato di diffamazione, l’illecito civile, qui non sorgono, pur in presenza di una obiettiva lesione, perché è lo stesso ordinamento giuridico a permetterla (art. 51 c.p.: “L’esercizio di un diritto […] esclude la punibilità”).  In questo caso si dice che il comportamento illecito è scriminato, e la lesione non dà luogo ad alcuna responsabilità, ma del compito di stabilire quali siano le condizioni in presenza delle quali si rientra nella scriminante si è incaricata la giurisprudenza, a partire dalla storica sentenza che scrisse il cosiddetto decalogo del giornalista (Cass. 18 ottobre 1984 n. 5259). Secondo tutti i giudici che, a partire da quella storica sentenza, si sono ritrovati a dover affrontare problematiche relative al diritto di cronaca, quest’ultima si configura correttamente soltanto quando concorrono i seguenti tre requisiti: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”); b) l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale, ossia la corretta e civile esposizione dei fatti. In assenza anche di uno solo di questi requisiti, il diritto inviolabile risorge in tutta la sua pienezza, rendendo illecita la manifestazione di pensiero.

4.Il diritto di critica

   Nella realtà cronaca e critica sono attività contigue ma sostanzialmente differenti: con la cronaca si informa la collettiva di un fatto diversamente con la critica lo si valuta; entrambi soggiacciono al limite della rilevanza sociale e della correttezza delle espressioni usate. In particolare il diritto di critica, che si concretizza nella manifestazione di opinioni, può anche non essere obiettivo, ma deve pur sempre corrispondere all’interesse sociale alla comunicazione e a quello della correttezza del linguaggio, senza mai sfociare in ingiurie, contumelie ed offese gratuite e senza mai trascendere in attacchi personali diretti a colpire sul piano individuale la figura del soggetto criticato (Cass. sez. 5^, n. 748/1999; Cass. sez. 5^, n. 5071/1986; Cass. sez. 5^, 21.02.1995).

   L’esercizio del diritto di critica, oltre che sull’art. 21 Cost.,  viene radicato anche su altre norme costituzionali che implicitamente lo richiamano o lo presuppongono, così atteggiandolo con un fondamento peculiare ed ulteriore rispetto al diritto di cronaca come gli articoli 18 e 49 Cost.

5. La decisione della Suprema Corte

   (…) “è evidente che, in un articolo di giornale relativo alla vita e alla personalità di soggetti pubblici, la selezione dei fatti rilevanti – accaduti in un lungo arco di tempo – non era possibile se non a prezzo di un elevato soggettivismo, dipendente dalla cultura, dalle propensioni e dalla sensibilità dell’articolista, nonché dagli obbiettivi da lui perseguiti, sicché la scelta da lui effettuata non è qualificabile in termini di “realtà” od “obbiettività” della rappresentazione (a meno di propalazione di dati falsi), bensì in termini di completezza, di equilibrio, di profondità e di intelligenza narrativa e valutativa: vale a dire, in termini non soppesabili col metro della corrispondenza al vero, che costituisce uno dei parametri cui – per giurisprudenza consolidata – va rapportata, al fine di valutarne la liceità, la critica giornalistica; questa, infatti, deve svilupparsi – come è stato sempre ribadito – su fatti veri, ma è libera nella elaborazione e negli approdi, purché i fatti commentati non diventino il pretesto di una gratuita aggressione alla sfera personale (argumentum ad hominem). E’ risaputo, infatti, ed è stato costantemente evidenziato dalla giurisprudenza (ex multis, Cass., n. 49570 del 23/9/2014), che la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, non è mai rigorosamente obbiettiva, in quanto ha, per sua natura, carattere congetturale e riflette gli interessi e la cultura di chi critica, sicché da essa deve solo pretendersi che non utilizzi notizie false o mistificatorie, che sia continente nell’espressione e si eserciti su fatti e persone aventi rilevanza pubblica. Non può affermarsi, pertanto, che la diffamazione sia stata consumata, nella specie, attraverso la selezione di fatti accaduti nel tempo, scelti opportunamente dall’articolista per dare volontariamente una rappresentazione distorta della famiglia Celentano-Moroni, essendo, nella specie, l’articolista libero di 4 Corte di Cassazione – copia non ufficiale selezionare i fatti reputati rilevanti per l’illustrazione della personalità dei soggetti criticati, nonché della realtà di coppia e di quella familiare. 1.2. Sotto altro profilo bisogna convenire sul fatto che una notizia può essere falsa se – pur avendo in sé un nucleo di verità – sia rappresentata in maniera incompleta, attraverso il ritaglio di elementi che caratterizzano e individuano il fatto, ovvero attraverso l’aggiunta di elementi ulteriori, partoriti dalla mente di chi commenta e critica il fatto stesso. Anche la “manipolazione” del dato costituisce, invero, una immutatio veri, rilevante sotto il profilo della diffamazione. Perché ciò accada occorre, però, che il risultato complessivo di questa operazione consista nello stravolgimento del “fatto”, inteso come accadimento di vita puntualmente determinato, riferito a soggetti specificamente individuati. (…). Quanto, infine, alla possibilità che una diffamazione possa essere consumata effettuando indebite generalizzazioni, anche qui bisogna convenire che la prospettazione accusatoria è – in linea di principio – esatta. Infatti, anche nel passaggio dal particolare al generale può annidarsi il dolus malus della volontarietà lesiva. Perché tale evenienza possa dirsi realizzata occorre, però, che fatti specifici, pur veri, siano valorizzati, in concreto, oltre le potenzialità dimostrative loro proprie, apparendo – quei fatti – solo il pretesto per attuare un’aggressione alla sfera morale della persona. Il che avviene allorché il giudizio espresso sui fatti non sia, secondo criteri di inferenza logica e in base al comune sentire, in rapporto di consequenzialità con i fatti commentati, ma sia il frutto di un’elaborazione mistificatoria, che si avvale della realtà dei fatti per aprire percorsi intellettivi indipendenti, strumentali all’attuazione del proposito criminoso. (…) Quanto alla responsabilità per la formulazione del titolo, ritenuto dal giudicante inutilmente offensivo (secondo motivo), corretto è il criterio cui si è attenuta la Corte d’appello, secondo cui del titolo non può essere ritenuto responsabile l’articolista, ove, come nella specie, questi si sia limitato a trasmettere l’articolo al giornale e sia stata la redazione a “titolare il pezzo”.

  “Segue il rigetto del ricorso atteso che i motivi proposti, in parte infondati e in parte inammissibili, non possono trovare accoglimento per le ragioni sin qui esposte; ai sensi dell’art. 592 c.p.p., comma 1, e art. 616 c.p.p i ricorrenti vanno condannato al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali“.

 In conclusione essendo stata rispettata la continenza del linguaggio e la veridicità dei fatti non vi si riscontrano gli estremi della diffamazione mentre per quanto riguarda il titolo offensivo i giudici ricordano che non ne risponde il giornalista che si limita ad inviare il pezzo poi titolato in redazione.

Dottssa Eva Simola

Pubblicato da evasimola

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