Abuso del diritto e abuso di giustizia

    Negli ultimi anni si è registrata una evoluzione del rapporto obbligatorio con riferimento all’ampliamento degli obblighi dallo stesso scaturenti. Prima di affrontare il tema si rende necessario chiarire cosa si intende per obbligazione e quale è la relativa disciplina normativa.

     L’istituto delle obbligazioni ha assunto un ruolo centrale con il codice civile del 1942 a causa del passaggio da un’economia agricola ad una industriale in quanto le obbligazioni assolvono una funzione di scambio, di tutela e di reazione a spostamenti patrimoniali ingiustificati.

     Il rapporto obbligatorio infatti è il rapporto giuridico in funzione del quale un soggetto (detto debitore) è tenuto a una prestazione suscettibile di valutazione economica al fine di soddisfare un interesse anche non patrimoniale del creditore, (la giuridicità di questo rapporto lo distingue sia dalle obbligazioni di cortesia sia dalle obbligazioni naturali).

    Dalla definizione sopra esposta si ricavano gli elementi necessari all’esistenza di un’obbligazione:

  • l’elemento soggettivo cioè il rapporto tra due o più soggetti (diversamente dal diritto reale dove il rapporto del soggetto è su qualcosa);
  • l’elemento oggettivo ossia la prestazione che deve essere economicamente valutabile ai sensi dell’art. 1174 cc;
  • l’elemento teologico ossia la finalizzazione al soddisfacimento di un interesse anche non economico del creditore.

    Le fonti delle obbligazioni sono contenute nell’art. 1173 cc e sono: il contratto, il fatto illecito e ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.

    L’ordinamento impone che il rapporto obbligatorio, dall’origine fino alla sua esecuzione, sia improntato al principio di buona fede di cui agli art. 1175 e 1176 cc espressione del più generale dovere di solidarietà ex art. 2 Cost., la cui violazione comporta responsabilità da inadempimento e il conseguente dovere di risarcire il danno alla controparte.

   La dottrina prevalente ritiene che sussista una sostanziale identità concettuale tra il principio di correttezza e quello di buona fede in senso oggettivo, intesa come regola di condotta cui devono attenersi le parti nel rapporto obbligatorio in ciò differenziandosi dalla buona fede in senso soggettivo consistente invece nell’ignoranza di ledere l’altrui diritto.

   Ciò implica che il giudice possa sindacare non solo l’inadempimento delle obbligazioni espressamente trasfuse nel contratto al quale le parti si sono volontariamente auto vincolate ma anche la stessa correttezza intrinseca del rapporto che deve essere garantito dall’assenza di prevaricazione da parte di un contraente nei confronti dell’altro. Ne consegue la netta censura del cosiddetto abuso del diritto che si configura in presenza dei seguenti presupposti:

  • titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto;
  • possibilità che il concreto esercizio di tale diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di  modalità non rigidamente predeterminate;
  • la circostanza che tali esercizi in concreto sia svolto secondo modalità non corrette secondo un criterio di valutazione giuridica o extra giuridico;
  • la circostanza che a causa di una tale modalità di esercizio si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto e il sacrifico della controparte.

     In presenza di abuso, secondo la cassazione, la reazione dell’ordinamento giuridico deve consistere nel rifiuto di apprestare tutela giuridica a un diritto che seppur formalmente conforme ai parametri legislativi sia in concreto esercitato in modo eccessivamente pregiudizievole per la controparte. In questo senso la suprema corte ha affermato che in presenza di una condotta scorretta di una delle parti consistente nell’aver esercitato il diritto di recesso violando il generale dovere di comportarsi secondo buona fede pur in presenza dell’espresso pattuizione del diritto di recesso “ad nutum”, “ il giudice ha il potere di intervenire nel regolamento contrattuale eliminando gli effetti dell’atto abusivo, ovvero il recesso  sarà tamquam non esset”. (Cass. Sez III, 18 settembre 2009 n. 20106). Più precisamente la corte di cassazione ha sostenuto che:”si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato e ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore giacché ciò che è censurato in tal caso non nell’atto di autonomia negoziale ma l’abuso di esso” (…) ” la buona fede in sostanza serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio e della proporzione“.

   A partire dal 2007 il principio dell’abuso del diritto è stata esteso anche al processo (abuso del processo e abuso di giustizia). Con una recente pronuncia  la cassazione a sezioni unite  è intervenuta limitando il diritto dell’attore di agire in giudizio con più azioni  anche per crediti diversi, laddove tali crediti siano riconducibili non solo ad un unico rapporto giuridico ma anche ad uno stesso fatto costitutivo ( Corte Cass. Sez Un. 16 febbraio 2017 n. 4091). Si è ritenuto che il criterio della buona fede presieda ad ogni fase del rapporto obbligatorio compresa quella giudiziale e pertanto il frazionamento dell’azione inciderebbe negativamente sul debitore il quale dovrebbe sottostare, a fronte della moltiplicazione di contestuali iniziative giudiziarie, ad un aggravio di spese e a l’onere di molteplici opposizioni per evitare la formazione di un giudicato pregiudizievole.

  In conclusione si osserva come il generale dovere di comportamento secondo buona fede e correttezza nel rapporto obbligatorio viene interpretato dalla giurisprudenza come canone comportamentale fonte di una vera e propria obbligazione, ulteriore ed autonoma rispetto agli obblighi pattuiti dalle parti che amplia il contenuto del rapporto obbligatorio, indicando una evoluzione dello stesso che trova fondamento negli inderogabili doveri di solidarietà sociale ex art. 2 Cost.  Come conseguenza dell’abuso l’ordinamento pone la regola generale del rifiuto della tutela che si sostanze nell’adozione di qualsiasi misura idonea a impedire al titolare del diritto di conseguire, attraverso comportamenti contrari alla buona fede oggettiva il risultato illecitamente perseguito e che si sostanzia: nel risarcimento del danno, nell’exceptio doli generalis, nella nullità, annullabilità, inefficacia dell’atto, nella perdita del diritto.

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Pubblicato da evasimola

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