Diffamazione su wattapp e “Comunicazione dei militari”

   TAR Sardegna sez. I , 14 Marzo 2022 n174.

   IL FATTO

   Un Tenente Colonnello della Guardia di Finanza, ha impugnato il provvedimento con cui è stata irrogata nei suoi confronti la sanzione disciplinare del rimprovero, nonché il provvedimento con cui è stato respinto il ricorso gerarchico.

    La sanzione disciplinare è stata irrogata con la seguente motivazione: “(…) avviava una conversazione di messaggistica istantanea (whatsapp) con Ufficiale di grado inferiore dipendente dapprima di altro comando regionale e successivamente da altro reparto del Comando Regionale Sardegna, inoltrando allo stesso una serie di messaggi contenenti commenti, valutazioni, suggerimenti: lesivi del prestigio di Ufficiali di grado superiore; evocativi di una generale condizione di inaffidabilità del contesto di servizio cui l’interessato è stato destinato; tesi a minare il clima organizzativo e la serenità del personale preposto ai Reparti del Comando Regionale della Sardegna”.

     Avverso tali atti il ricorrente deduce i seguenti motivi di diritto:

  • Violazione dell’art. 15 della Costituzione;
  • Eccesso di potere per difetto di istruttoria e illogicità manifesta;
  • Eccesso di potere per violazione del giusto procedimento;
  • Violazione dell’art. 1352 del Decreto Legislativo n. 66 del 15.03.2010;
  • Violazione degli artt. 712, 713, 717, 719, 725, 732 e 733 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 90 del 15.03.2010, in quanto la conversazione per cui è stata irrogata la sanzione ha natura esclusivamente privata, svoltasi al di fuori di chat di lavoro o ufficiali, senza che peraltro sia dato sapere come tale conversazione privata sia venuta a conoscenza del Comando. Trattandosi di comunicazione svolta tramite messaggistica istantanea con un unico interlocutore e privata, essa gode delle garanzie di libertà e segretezza di cui all’art. 15 Cost., perciò, da un lato, non possono essere usate nel procedimento sanzionatorio, dall’altro non possono comunque avere finalità denigratorie nei confronti dei terzi. Non può, in senso contrario e come fatto dall’Amministrazione, rilevare che l’interlocutore avrebbe la possibilità di produrre il contenuto della conversazione, senza che l’asserita inerenza al servizio possa mutare il carattere segreto della comunicazione. Opinioni espresse che, comunque, non risultano in alcuna misura idonee a cagionare quei fatti indicati nel provvedimento, quali lesione del prestigio di Ufficiali e in generale minare il clima organizzativo del Reparto, mancando peraltro riferimenti a soggetti specifici o alcuna contestazione nei confronti dell’ambiente di lavoro.
  • II Violazione degli artt. 1350, 1370 e 1398 del Decreto Legislativo n. 66 del 15.3.2010;
  •  Violazione degli art. 1029 (supportato dall’art. 1025) e 1046 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 90 del 15.03.2010;
  • Eccesso di potere per violazione dell’allegato 1 al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 147 del 30.06.2011, in quanto, ai sensi dell’art. 1029 del D.P.R. n. 90/2010 (Testo Unico dell’ordinamento militare), coloro che abbiano titolo a prendere parte a procedimenti amministrativi nell’ambito dell’ordinamento militare possono presentare memorie scritte e documenti entro un termine pari a due terzi di quello stabilito per la durata del medesimo procedimento e, nel caso di specie, tale termine è pari a 60 giorni; tuttavia, al ricorrente sono stati assegnati soli tre giorni per la presentazione di giustificazioni rispetto alla contestazione disciplinare. Né sono pertinenti le argomentazioni rese in sede di ricorso gerarchico per cui il procedimento deve essere concluso con celerità e senza ritardo e che il ricorrente non abbia richiesto termini a difesa.

    Resistono il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Comando Generale della Guardia di Finanza, il Comando Interregionale dell’Italia Centrale della Guardia di Finanza, il Comando Regionale Sardegna della Guardia di Finanza, che hanno richiesto il rigetto del ricorso siccome infondato, evidenziando in particolare:

  • l’ampia discrezionalità di cui gode l’amministrazione nella valutazione dei fatti disciplinarmente rilevanti;
  • la regolare acquisizione della conversazione attraverso apposite relazioni di servizio, rispettivamente in data 18.09.2020 e in data 24.09.2020, prodotte dall’altro interlocutore che ha partecipato alla chat, il quale ha solo ottemperato all’obbligo di cui all’art. 748, comma 5 lettera b) del Testo Unico delle disposizioni regolamentari, relativo alle “Comunicazione dei militari” e che prevede che ogni militare debba “dare sollecita comunicazione al proprio comando o ente degli eventi in cui è rimasto coinvolto e che possono avere riflessi sul servizio”;
  • che il breve termine a difesa concesso deve comunque ritenersi congruo e il ricorrente non ha richiesto alcun più lungo termine a difesa e senza che, nel ricorso gerarchico già proposto vi siano elementi ulteriori e diversi da quelli oggetto delle osservazioni presentate in sede procedimentale.

 DIRITTO

   Principiando dalla deduzione per cui la comunicazione tra il ricorrente e la collega non sarebbe potuta essere utilizzata dall’amministrazione al fine di fondare la contestazione disciplinare, il Tar osserva che “la stessa si basa sull’orientamento giurisprudenziale portato dalla sentenza Cass. Civ., Sez. Lav., 10 settembre 2018, n. 21965, per cui posto che “i messaggi che circolano attraverso le nuove “forme di comunicazione”, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, come appunto nelle chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile”, ex art. 15 Cost. e, perciò, sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie, ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse. La tesi ora richiamata non appare, in linea generale, condivisibile, nonché, comunque, nonostante le ampie argomentazioni svolte dal ricorrente, non appare applicabile al caso di specie, inerente una sanzione disciplinare adottata nell’ambito dell’ordinamento militare e questo perché la sentenza citata e posta a fondamento del ricorso “ha affrontato l’ipotesi della natura antigiuridica o meno, quale diffamazione, della condotta costituita dall’aver reso opinioni in una chat da parte di un lavoratore nei confronti del datore di lavoro, al fine di valutare la sua rilevanza o meno quale giusta causa di licenziamento, che richiede l’antigiuridicità della condotta, nell’ambito di un rapporto di lavoro privato”. Inoltre l’orientamento prospettato dalla sentenza della Corte di Cassazione succitata “appare invero minoritario nel panorama giurisprudenziale che si è occupato della possibile rilevanza della diffamazione, in quanto, come rilevato in senso critico da diversi autori in commento alla decisione, il reato di diffamazione (semplice) non presuppone affatto la divulgazione nell’ambiente sociale e, quindi, la pubblicità della comunicazione – requisito proprio della fattispecie aggravata – bensì la mera comunicazione che può essere privata e pure riservata. Ed invero, rileva ancora la dottrina, l’orientamento citato, pur senza prendere posizione sul punto, si discosta dagli orientamenti della stessa Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che nelle varie pronunce concernenti licenziamenti irrogati per la trasmissione di missive o e-mail denigratorie non ha mai considerato natura ‘‘riservata’’ della corrispondenza né l’assenza di volontà divulgativa, valutando invece la portata diffamatoria delle espressioni utilizzate dal lavoratore e l’eventuale esercizio del diritto di critica (cfr. ex multis Cass., 20 settembre 2016, n. 18404; Cass., 9 febbraio 2017, n. 3484; Cass., 10 novembre 2017, n. 26682; proprio con riferimento all’applicativo whatsapp cfr. Cass., 6 settembre 2018, n. 21719). Ancora, in senso critico, si è rilevato in dottrina che non sono pertinenti i principi di libertà e segretezza della corrispondenza, sanciti dall’art. 15 Cost., che sì né precludono agli estranei la cognizione e la rivelazione come previsto dagli artt. 616 e 617 c.p., ma non sono invocabili laddove il datore di lavoro abbia conosciuto il contenuto della comunicazione non in violazione delle predette norme, bensì per la rivelazione che il partecipante alla comunicazione ne abbia fatto. Invero, per i partecipanti alla conversazione, non vige alcun divieto di rivelazione né di divulgazione, ferma restando, naturalmente, la responsabilità per l’eventuale diffamazione insita nella divulgazione (cfr. Cass. Pen., Sez. V, 26 settembre 2014, n. 40022), poiché, analogamente a quanto avviene per la normale corrispondenza, non può essere considerata contrastante con la normativa sui dati personali l´eventuale successiva presa di conoscenza della e-mail da parte di soggetti estranei al circuito di posta elettronica, quando il messaggio non sia stato indebitamente acquisito da questi ultimi, ma ad essi comunicato da parte di uno dei destinatari del messaggio stesso (cfr. Parere del Garante per la protezione dei dati personali, 12 luglio 1999). Tale ultimo passaggio è pienamente aderente al caso che oggi occupa, in quanto risulta che sia stata la partecipante alla conversazione a renderne noto il contenuto all’amministrazione, sicché si appalesa anche di non primaria rilevanza la questione circa l’applicabilità o meno al caso di specie del dovere di comunicazione ai sensi dell’art. 748, comma 5 lettera b) del Testo Unico delle disposizioni regolamentari D.P.R. n. 90/2010, relativo alle “Comunicazione dei militari”. Peraltro, deve aggiungersi che, anche alla luce di quanto chiarito, una volta che l’amministrazione ha conosciuto il contenuto della conversazione, che è stato reso pubblico dall’altro interlocutore, non poteva non tenerne conto ai fini della valutazione, che le è propria, in merito alla rilevanza disciplinare delle affermazioni rese dal ricorrente. Ma, anche prescindendo dalle suesposte considerazioni, deve escludersi la pertinenza della giurisprudenza citata al caso in esame, nel quale la rilevanza disciplinare del comportamento prescinde del tutto dalla necessità di accertare la sua antigiuridicità in termini di potenzialità diffamatoria. Nel provvedimento è indicato che i messaggi avrebbero determinato i seguenti eventi: “lesivi del prestigio di Ufficiali di grado superiore; evocativi di una generale condizione di inaffidabilità del contesto di servizio cui l’interessato è stato destinato; tesi a minare il clima organizzativo e la serenità del personale preposto ai Reparti del Comando Regionale della Sardegna”. In nessun modo dunque può assumere rilevanza una giurisprudenza che afferma che una conversazione resa in una chat privata non possa costituire diffamazione, poiché il messaggio non potrebbe essere conosciuto da una pluralità di soggetti, requisito necessario perché si integri il reato di diffamazione e dunque non sia antigiuridica; ciò perché, nel caso che occupa, gli eventi lesivi e forieri di responsabilità disciplinare contestati non richiamano in alcun modo la realizzazione di una condotta di diffamazione penalmente rilevante o comunque antigiuridica. Come si vede, è anzi sufficiente a cagionare, in astratto, gli eventi citati, la conoscenza anche solo dell’interlocutrice del ricorrente, siccome appartenente al corpo militare e dell’Ufficiale di grado superiore, evento verificatosi. Né è d’altronde necessario, al fine di affermare la possibile rilevanza disciplinare nell’ambito dell’ordinamento militare, che la condotta abbia portata antigiuridica – e segnatamente diffamatoria – in quanto l’amministrazione gode di una ampia discrezionalità nella valutazione dei fatti che possano assumere una rilevanza disciplinare nell’’ambito dell’ordinamento militare. In tal senso infatti, “è caratteristica di tutte le sanzioni di “corpo” la ampia gamma delle infrazioni ad essa correlabili e la loro non corrispondenza a comportamenti dettagliatamente tipizzati dalle norme, ma che cionondimeno radicano la propria legittimità nel generale dovere di osservanza dei doveri previsti dal regolamento. Tale connotazione apre perciò un ampio spazio di valutazione riservato all’amministrazione militare (…)” (Cons. Stato, Sez. IV, 7 aprile 2014, n. 1609). Non è dunque fondato il primo profilo di illegittimità dedotto con il primo motivo di ricorso, non potendosi condividere l’assunto attoreo per cui i messaggi inviati dal ricorrente tramite l’applicativo whatsapp a terzi sarebbero inutilizzabili, già in astratto, ai fini di fondare una possibile responsabilità disciplinare.

 

    Per quanto attiene invece al secondo profilo di illegittimità dedotto con il primo motivo di ricorso, i.e. l’inidoneità, in concreto, del contenuto dei messaggi a cagionare gli eventi indicati nel provvedimento, il Tar conclude che “anch’esso non può trovare accoglimento. In senso contrario, deve infatti essere richiamato il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa per cui “la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all’applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità, salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento. In particolare, le norme relative al procedimento disciplinare sono necessariamente comprensive di diverse ipotesi e, pertanto, spetta all’Amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l’infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità” (ex multis Consiglio di Stato, Sez. IV, 24 febbraio 2020, n. 1359). Tali evidenti profili di illegittimità non si rinvengono nel caso di specie, avuto riguardo, da un lato, al contenuto stesso dei messaggi, i quali, pur non contenenti affermazioni “gravi”, non è manifestamente illogico o irragionevole che possano fondare una valutazione di rilevanza disciplinare, essendo affermazioni di tenore comunque negativo rispetto alla attività svolta da un Ufficiale di grado superiore quale -OMISSIS- e alla conseguente condizione di lavoro nella sede – OMISSIS-; dall’altro e in stretta connessione, guardando alla natura della sanzione disciplinare irrogata, quale quella del “rimprovero”, che si inserisce nell’ambito delle sanzioni disciplinari di corpo ex art. 1358 Codice dell’Ordinamento Militare quale sanzione con cui “sono punite le lievi trasgressioni alle norme della disciplina e del servizio” (art. 1360 C.O.M.), non apparendo perciò essa sproporzionata rispetto ai fatti addebitati, evidentemente comunque considerati di lieve entità dalla stessa amministrazione, anche in considerazione del fatto che già a monte le sanzioni disciplinari di corpo sono meno gravi delle sanzioni disciplinari di stato, in quanto le prime sono riferibili alla violazioni della disciplina militare cui consegue un effetto meramente interno alla stessa organizzazione militare, mentre le seconde attingono fatti di rilevanza esterna. Quanto poi agli effetti negativi, allegati dal ricorrente, che la sanzione peculiarmente possa esplicare nel caso concreto (penalità nel punteggio attribuito in sede di valutazione per l’avanzamento) non possono condurre essi stessi ad una valutazione di gravità della sanzione irrogata, che per le ragioni citate non può essere qualificata manifestamente sproporzionata e dunque, nei limiti del sindacato consentito al giudice amministrativo, condurre a una valutazione di illegittimità. Consegue perciò il rigetto anche dell’ulteriore profilo di illegittimità dedotto con il primo motivo di ricorso”.

 

     In merito al  secondo motivo di ricorso “si contesta, sul piano procedimentale, l’esiguo termine a difesa (tre giorni) assegnato al ricorrente nel corso del procedimento disciplinare, a fronte di un termine che sarebbe dovuto essere di giorni sessanta, poiché pari a due terzi di quello stabilito per la durata del procedimento intero (art. 1029, comma 2 D.P.R. n. 90/2010), che, nel caso di specie, sarebbe pari a novanta giorni (art. 1046, comma 1, let. h, n. 6 D.P.R. n. 90/2010). La difesa erariale controdeduce circa la congruità del termine pur breve assegnato, anche in considerazione della presentazione, in concreto, da parte del ricorrente, di giustificazioni e documenti, senza aver richiesto un più lungo termine a difesa; giustificazioni che ricalcherebbero le doglianze poi mosse col ricorso gerarchico. Il motivo è infondato e deve essere rigettato. È infatti senz’altro vero che vanno distinti i termini inderogabili, che sono quelli posti a garanzia dell’inquisito, e cioè quelli previsti per la presentazione delle giustificazioni, la presa visione degli atti e per il preavviso di trattazione davanti alla commissione, da quelli ordinatori o sollecitatori, che sono i termini restanti (Cons. Stato Ad. Plen., n. 4/2000), tuttavia la medesima giurisprudenza non ritiene in contrasto con il principio citato l’affermazione per cui la violazione dei termini non conduce ad illegittimità della sanzione laddove emerga la circostanza concreta per cui l’incolpato aveva avuto la possibilità di predisporre le sue difese, nonché la circostanza per cui non abbia chiesto un ulteriore termine a difesa (cfr. Cons. Stato, sez. III, 1 marzo 2017, n. 949). Se così è, nel caso di specie non può non assumere rilevanza l’effettiva esplicazione del diritto di difesa in concreto svolta dal ricorrente, poiché risulta documentalmente come il ricorrente abbia depositato, nel pur breve termine assegnato, argomentate osservazioni (doc. 4), che effettivamente ricalcano le stesse difese poi espletate in sede di ricorso gerarchico dallo stesso ricorrente nel più lungo termine avuto a disposizione; di tal che, appare al Collegio la congruità, in concreto, del termine a difesa di cui ha disposto il ricorrente. D’altronde, in termini più ampi e per quanto non direttamente applicabile, deve condividersi innanzitutto l’assunto generale per cui le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente (Cons. Stato, Sez. V, 20 febbraio 2020, n. 1290), nonché, più specificamente e in chiave ermeneutica sistematica, il nuovo disposto dell’art. 55 bis, comma 9 ter del D.lgs. n. 165/2001, che, in relazione ai procedimenti disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, dispone l’irrilevanza della violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare “purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente”. Conseguentemente, stante l’esplicazione in concreto delle facoltà difensive in sede procedimentale da parte del ricorrente, nonostante la brevità del termine concesso, il motivo di ricorso non può trovare accoglimento

   In conclusione,  Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, lo rigetta. 

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Pubblicato da evasimola

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