Legittima reazione ad atti arbitrari: art. 393 bis cp

     Esimente della legittima reazione ad atti arbitrari (art. 393 bis c.p.), rubricato “Causa di non punibilità”, dispone che:

Non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 339 bis, 341 bis, 342 e 343 quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni”.

   Questa norma stabilisce in quali casi la reazione del privato agli atti del pubblico ufficiale è lecita, in quali casi cioè il ricorso alla violenza o alla minaccia del privato di cui all’art. 336 c.p. non possa essere punito.

Dalla lettura dell’art. 393 bis c.p. si ricava che i presupposti della reazione lecita sono:

  1. che il p.u. abbia ecceduto rispetto ai limiti delle sue attribuzioni;
  2. che il p.u. abbia compiuto atti contrari ai propri doveri o omesso un atto dell’ufficio, ossia atti arbitrari;
  3. che l’eccesso abbia dato causa alla reazione del privato.

    Orbene ciò premesso si prende in esame la seguente pronuncia della Suprema corte: Cass. VI Sez. 1° marzo 2022, n. 7255.
LA MASSIMA
L’esimente della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale è integrata ogni qual volta la condotta di questi, per lo sviamento dell’esercizio di autorità rispetto allo scopo per cui la stessa è conferita o per le modalità di attuazione, risulta oggettivamente illegittima, non essendo di contro necessario che il soggetto abbia consapevolezza dell’illiceità della propria condotta diretta a commettere un arbitrio in danno del privato”.
    IL CASO
   La Corte di appello di Salerno ha confermato il giudizio di responsabilità nei confronti dell’imputato  limitatamente al delitto previsto dall’art. 336 cod. pen. (capo A), mentre ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di cui all’art. 186 bis, comma 6, Codice della Strada. L’imputato, dopo aver rifiutato di sottoporsi all’alcol test, avrebbe usato minaccia nei riguardi del pubblico ufficiale  per costringerlo a compiere un atto contrario ai propri doveri d’ufficio.
Contro la sentenza di condanna l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione articolandolo in due motivi:
1. Con il primo motivo ha dedotto la violazione di legge del giudizio di responsabilità in quanto secondo la difesa,  l’atto che i pubblici ufficiali furono costretti a non compiere sarebbe stato quello di sottoporre l’imputato all’alcol test, per il quale “era necessario recarsi in ospedale”, atteso che i pubblici agenti non avevano con loro il dispositivo necessario. Più chiaramente il ricorrente sostiene che la sentenza avrebbe omesso di considerare che non vi è nessun obbligo per il cittadino di sottoporsi ad accertamenti ospedalieri per verificare le condizioni di alterazione psichica, che l’ordinamento sanziona il rifiuto di sottoporsi a detti accertamenti ai sensi dell’art. 186 C.d.S. e che il diniego del consenso agli accertamenti ospedalieri non può essere coartato attraverso la minaccia di punibilità ai sensi dell’art. 336 cod. pen. Si aggiunge che la reazione dell’imputato si verificò solo dopo che i pubblici agenti manifestarono la necessità di recarsi in ospedale dopo il rifiuto di sottoporsi all’alcoltest.
.2. Con il secondo motivo si lamenta il vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento della sospensione condizionale della pena, richiesta con l’atto di appello, ed al trattamento sanzionatorio, ritenuto eccessivamente severo.
LA QUESTIONE
      La questione di diritto, della quale la Corte di Cassazione viene investita, inerisce al concetto di atto arbitrario: “È noto come il profilo maggiormente problematico della causa di non punibilità prevista dall’art. 393 bis cod. pen. riguarda storicamente il concetto di “atto arbitrario”, che costituisce la modalità con la quale il pubblico funzionario deve eccedere le proprie competenze per rendere legittima l’altrui reazione” ( Cass  n. 7255/22). In concreto la Suprema Corte si sofferma sul fatto che ” secondo la Corte di appello, il reato contestato sarebbe nella specie configurabile perché la condotta si verificò successivamente “alla richiesta del verbalizzante di sottoporsi all’alcol test e che pertanto era necessario recarsi in ospedale” e che “solo in quel momento il G. pronunziava le parole di cui alla contestazione”Ricostruzione che secondo la Suprema Corte è equivoca: ” dalla motivazione della sentenza non è spiegato se la condotta incriminata fu posta in essere a seguito della richiesta di sottoporsi all’alcol test ovvero quando, già intervenuto il rifiuto, i pubblici agenti chiesero comunque a G di recarsi in ospedale per sottoporsi all’esame, già in realtà rifiutato. Si tratta di una circostanza rilevante, atteso che, nel caso in cui la condotta fosse stata compiuta dopo il rifiuto e solo a seguito della ulteriore richiesta degli agenti di recarsi necessariamente in ospedale, ciò che avrebbe dovuto essere verificato è se nella specie quella ulteriore richiesta legittima e se, in relazione alla reazione dell’imputato, fosse configurabile la causa di giustificazione prevista dall’art. 393 bis cod. pen.) “.
 Orbene secondo un primo consolidato orientamento di legittimità, cui aderisce anche parte della dottrina, l‘eccesso arbitrario non si esaurisce nella mera illegittimità dell’atto compiuto dal pubblico ufficiale, ma richiede un elemento ulteriore, soggettivamente caratterizzante il suo agire; l’atto, per potersi definire “arbitrario”, deve manifestare “malanimo, capriccio, settarietà, prepotenza, sopruso ed altri simili motivi” e, comunque, esprimere “il consapevole travalicamento da parte del pubblico ufficiale dei limiti e delle modalità entro cui le pubbliche funzioni debbono essere esercitate” (cfr. tra le altre, Sez. 5, n. 45245 del 25/10/2021, Atzeni, Rv. 282422; Sez. 6, n. 25309 del 19/05/2021, Mejri, Rv. 281955; Sez. 6, n. 11005 del 05/03/2020, Nata, Rv. 278715; Sez. 6, n. 5414 del 23/01/2009, Amara, Rv. 242917). In definitiva, la tesi in esame è fondata sull’assunto secondo cui il concetto di “arbitrarietà” avrebbe una sua autonomia rispetto a quello di “eccesso”, in un’ottica essenzialmente soggettiva, come consapevole volontà (e quindi malafede) del pubblico ufficiale di eccedere i limiti delle sue funzioni. Con l’ulteriore corollario per cui l’istituto non potrà operare quando risulti che il pubblico funzionario abbia agito nella consapevolezza (pur colposamente erronea) di adempiere ad un dovere d’ufficio e, per contro, il privato abbia reagito violentemente, non essendo consapevole dell’abuso oggettivo compiuto nei suoi riguardi.
   Da altra parte della giurisprudenza di legittimità si è tuttavia sottolineato come, pur nell’ambito della ricostruzione strettamente soggettiva dell’istituto, sarebbe scriminata la reazione del privato all’atto dei pubblici agenti quando questi sia realizzato con modalità non consentite dalla legge, perché provocatorie, oppure quello costituente reato (ingiurie, minacce, percosse, ecc.), oppure ancora, all’atto contrario alle norme elementari dell’educazione e del costume sociale (Sez. 6, n. 36009 del 21/06/2006 Tonione, Rv. 235430); si tratta di una impostazione che, da una parte, recepisce l’indirizzo maggioritario di cui si è detto – che impone di non fermarsi alla mera illegittimità dell’atto- ma, dall’altra, tende a riempire quei vuoti di tutela che una lettura troppo soggettivista comporterebbe, pure a fronte di condotte avvertite come arbitrarie dalla coscienza sociale.
Una impostazione, quella in esame, che tende ad avvicinarsi a quanto la Corte Costituzionale ha avuto modo di precisare con la sentenza n. 140 del 1998. I principi fissati dalla Corte costituzionale sono stati recepiti dalla Corte di Cassazione che,  ha affermato che l’esimente della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale è integrata ogni qual volta la condotta dei questi, per lo sviamento dell’esercizio di autorità rispetto allo scopo per cui la stessa è conferita o per le modalità di attuazione, risulta oggettivamente illegittima, non essendo di contro necessario che il soggetto abbia consapevolezza dell’illiceità della propria condotta diretta a commettere un arbitrio in danno del privato (Sez. 6, n. 54424 del 27/04/2018,Calabrò, rv. 274680; Sez. 5., 2941 del 08/11/2018, dep. 2019, Errabia, Rv.275304 Sez. 6, n. 43898 del 13/09/2016, Virdis, Rv. 268504; nello stesso senso, Sez. 6, n. 7918 del 13/01/2012, Variale, Rv. 252175; Sez. 6, n. 10773 del 09/02/2004, Maroni,
Rv. 227991).
 LA SOLUZIONE
   La  Suprema Corte ha ritenuto di accogliere il ricorso reputando il primo motivo fondato con valenza assorbente, ravvisando nella sentenza impugnata una “ricostruzione fattuale parziale, in ordine all’accertamento dei fatti per i quali si procede, non essendo stato spiegato, sulla base dell’intero materiale probatorio raccolto, quando i pubblici agenti chiesero all’imputato di seguirli in ospedale, se detta richiesta fu legittima, se ed in che limiti sia configurabile la scriminante prevista dall’art. 393 bis cod. pen. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio; la Corte di appello ricostruirà connpiutamente i fatti, e, applicando i principi indicati, verificherà se ed in che limiti sia configurabile la scriminante indicata.”
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Pubblicato da evasimola

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