Principio di legalità: parte III

    La consuetudine, come noto, è una fonte di diritto, che in rami diversi da quello penale ha notevole importanza. Più precisamente nel nostro ordinamento esistono due categorie di usi o consuetudini , costituenti due distinti istituti giuridici, difformi sia per la loro natura che per i loro effetti: l’uso normativo, previsto dagli artt. 1 e 8 delle preleggi al codice civile, e l’uso negoziale[1], trovante il suo fondamento nell’art. 1340 cod. civ.. Quest’ultimo, a sua volta, costituisce categoria di riferimento per ciò che attiene agli usi interpretativi, disciplinati dall’art. 1368 cod. civ., e alla c.d. prassi aziendale, i quali appunto costituiscono sottospecie dell’uso negoziale.

Gli usi giuridici o normativi si distinguono da quelli negoziale o interpretativi perché mentre i primi costituiscano fonte sussidiaria del diritto nelle materie in cui manca del tutto la disciplina legislativa (usi pretem legem) ovvero, in materie regolate da leggi o regolamenti, i secondi costituiscono mezzi di interpretazione della volontà ambiguamente espressa dai contraenti o di integrazione della medesima con la clausola che, abitualmente praticata nella zona, si presume voluta dalle parti anche se non espressamente richiamata (Cass. 21/11/1983, n. 6948)

L’uso normativo richiede due requisiti, uno, di natura oggettiva, consistente nella uniforme, generale e costante ripetizione di un dato comportamento, l’altro, di natura soggettiva (o psicologica), consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica (c.d. “opinio iuris seu necessitatis”). In quanto dotato delle caratteristiche e degli effetti di una norma giuridica, l’uso normativo deve possedere i requisiti dell’astrattezza e della generalità, anche se circoscritti ad una determinata zona. L’uso normativo è una fonte del diritto, se pure terziaria, posto che nella gerarchia delle fonti è posto dopo le leggi e i regolamenti (cfr. art. 1 delle preleggi). Esso costituisce fonte sussidiaria del diritto nelle materie in cui manca del tutto la disciplina legislativa (uso c.d. “praeter legem”), mentre nelle materie regolate dalla legge o dai regolamenti ha efficacia solo se espressamente richiamato (uso c.d. “secundum legem”) – cfr. art. 8

comma 1 delle disposizioni delle leggi in generale, secondo cui “nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati”. Dalle caratteristiche sopra delineate discende che : 1- il requisito oggettivo e il requisito soggettivo sono entrambi imprescindibili, posto che, in assenza, ad esempio, del requisito psicologico, il fenomeno consuetudinario si riduce ad una mera prassi; 2- l’uso normativo può essere “praeter legem”, allorché manchi del tutto una disciplina legislativa, e “secundum legem”, nella misura in cui è richiamato da una legge o da un regolamento (e in questo caso la norma consuetudinaria ha posizione subordinata rispetto a quella che la richiama, analogamente alla legge delegata rispetto alla legge delegante), ma non può mai essere “contra legem”; 3- in quanto norma giuridica, ha effetti indipendentemente dalla concreta conoscenza che gli interessati abbiano potuto averne; 4- pur non essendo il giudice tenuto a conoscere l’uso normativo (incombendo sulla parte che ne richiede l’applicazione la prova della sua esistenza), tuttavia, costituendo una vera e propria norma giuridica, se è noto al magistrato, è applicabile anche se la parte non ne abbia fornito la prova (mentre questa è necessaria solo se il giudice lo ignori).

   Nel diritto penale, in cui vige il principio di stretta legalità, la consuetudine ha una portata limitatissima, o addirittura nulla, secondo alcuni autori.

La consuetudine innovatrice o incriminatrice

Anzitutto è opinione assolutamente unanime che non sia ammessa la consuetudine innovatrice: vale a dire che non è possibile che per mezzo di una consuetudine si creino nuovi tipi di reato o nuovi tipi di pena.

La consuetudine abrogatrice o desuetudice

La dottrina prevalente sostiene poi che non può darsi spazio neanche alla consuetudine abrogatrice, perché anche se è vero che determinati fatti non sono più puniti da lungo tempo ciò non significa che il reato abbia cessato di esistere e il giudice non possa tornare ad applicare la norma. Inoltre ex art. 15 preleggi cc una legge può essere abrogata solo da un’altra legge.

Non mancano però autori i quali sostengono che la consuetudine abrogatrice trovi uno spazio applicativo e che l’opposta opinione sarebbe il frutto di una superfetazione del principio di legalità. Secondo questa tesi la consuetudine sarebbe fonte sostanziale del diritto penale perché quando un determinato comportamento non è più sentito come reato dalla coscienza sociale e il giudice non applica più la norma, questa, di fatto, cessa di avere vigore (cd. desuetudine applicativa o disapplicazione).

In questo senso, ad esempio il Trib. di Roma ha assolto due extracomunitari che avevano venduto due CD contraffatti per il reato di violazione della legge anticopyright, sostenendo, tra le altre cose, la desuetudine applicativa in merito a tale tipo di reati (Trib. Roma sent. 15 febbraio 2001, in Foro it., 2003, II, col. 175)

Questa teoria postula che nel nostro ordinamento esista anche un altro principio, quello di effettività. Tale principio implica che il diritto penale sia quel complesso di norme che effettivamente sono vietate e a cui è collegata, sempre effettivamente, una sanzione. Di conseguenza la norma che non viene più applicata è espunta dal sistema giuridico penale. Tale fenomeno non si deve confondere però con quello della consuetudine abrogatrice, pur avendo effetti analoghi infatti la desuetudine non abroga la legge penale, che continua a rimanere in vita, tanto che nel contrasto tra legge penale effettiva e legge formale prevale quest’ultima. Nel contrasto infatti tra principio di effettività e principio di legalità prevale in ogni caso quest’ultimo. Il punto, comunque, è che il giudice non può non tener conto del fatto che quella determinata norma è caduta in desuetudine. Nella consuetudine abrogativa invece si riconosce alla desuetudine la funzione abrogatrice.

 

Tuttavia questa teoria non è altro che una variante teorica dell’altra, in quanto dal punto di vista pratico nulla cambia. Si tratta di prendere atto che una norma non è più sentita come reato dalla maggioranza dei cittadini e la conseguenza è che il giudice non la applicherà; ma dire poi che nel contrasto tra principio di effettività e principio di legalità prevale quest’ultimo significa giungere alle stesse identiche conclusioni della teoria dominante.

Ulteriormente di deve distinguere la abrogazione tacita che postula l’incompatibilità di nuove disposizioni con quelle precedenti. La Suprema Corte (Cass pen. sez VI, 19 Febbraio 1999, n. 2176) ha stabilito ad esempio che la fattispecie prevista dall’articolo 348 cp ha rinnovato la regolamentazione di un’intera materia, determinando così l’abrogazione tacita di quelle leggi anteriori che punivano l’esercizio abusivo delle professioni;

La consuetudine integratrice

Discorso diverso va fatto, invece, per la cosiddetta consuetudine integratrice (o praeter legem), che si ha quando la norma penale richiama, esplicitamente implicitamente, altri rami dell’ordinamento nei quali la consuetudine ammessa come fonte di diritto.

L’articolo 625, co. 1, n. 7 cp ad esempio, fa riferimento alle cose esposte alla pubblica fede per consuetudine, in tal caso la legge che determina il modo di operare della consuetudine. La cassazione ha affermato che non sussiste l’aggravante di cui all’articolo 625 comma primo,n. 7 – sub specie di esposizione per consuetudine alla pubblica fede nel caso in cui si verifichi il furto di una bicicletta abbandonata senza alcuna custodia in una pubblica via in quanto la consuetudine di cui al citato articolo designa la pratica di fatto rientrante negli usi e nelle abitudini sociali, desunta sulla base di condotte verificate come ripetitive in un ampio arco temporali e tali, pertanto, da essere riconducibile a notorietà. Tali estremi non sono integrati nella specie in quanto non può qualificarsi radicata abitudine del ciclista quella di lasciare la propria bicicletta sulla pubblica via senza avere cura di assicurarla mediante l’utilizzo della chiave di chiusura in originaria dotazione ovvero della catena antifurto ordinariamente commercializzata come accessorio (Cass, sez VI,  del 10/03/ 2006 n. 8450). Detto altrimenti una bicicletta deve intendersi esposta per necessità, e non già per consuetudine, alla pubblica fede quando il detentore la parcheggi per una sosta momentanea lungo la strada, così determinando l’operatività dell’aggravante di cui all’articolo 625, comma 1, numero 7).

   Ulteriormente secondo una certa dottrina l’obbligo di cui all’articolo 40 comma 2 (“non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”) potrebbe anche sorgere dalla consuetudine in quanto limitato a integrare il precetto penale, senza contribuire a determinarl

La consuetudine scriminante

  Parte della dottrina ammette la consuetudine scriminante, cioè quella figura di consuetudine per mezzo della quale si dà ingresso nell’ordinamento a nuove cause di giustificazione non codificate e a nuove cause di esclusione della colpevolezza. Secondo questa dottrina le norme che configurano le scriminanti poiché non hanno carattere penale non sono soggette al principio della riserva di legge pertanto ad es. è ammissibile che l’esercizio di un diritto (art.51 cp), quale causa di giustificazione, abbia la sua fonte in una norma consuetudinaria.

 In senso contrario, la dottrina dominante, ritiene che stante il carattere derogatorio delle norme scriminanti rispetto alle norme incriminatrici, soltanto delle disposizioni di pari rango possono limitarne l’applicazione (art.15 preleggi cc), d’altronde, che la scriminante sia da considerare a tutti gli effetti norma penale è avvalorato dalla lettura dell’art. 5 cp secondo cui l’ignoranza della legge penale non scusa (nel senso che essa contempla oltre all’errore sul precetto anche l’errore di diritto sulle scriminanti). Diverso è il caso in cui una norma scriminante contenga un elemento normativo che rinvia ad altri rami dell’ordinamento giuridico che mettono la consuetudine. Si pensi, ad esempio, al concetto di diritto contenuto nella norma sulla legittima difesa articolo 52. Qui, infatti, non si tratta di dare vita a nuove scriminante create dalla consuetudine bensì di concorrere a definirne il contenuto previsto dal legislatore.

Consuetudine interpretava

Con essa la dottrina intende fare riferimento all’operazione ermeneutica volte a definire il significato di quegli elementi della fattispecie penale definibili secondo criteri sociali di valutazioni mutevoli nel tempo e nello spazio come ad esempio il concetto di onore, di reputazione, di pudore eccetera. In questi casi, in realtà, siamo al di fuori della tematica delle fonti di diritto opponendosi piuttosto un problema di formulazione della fattispecie in relazione al principio di tassatività.

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Pubblicato da evasimola

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