I pionieri della vittimologia

La vittima del reato è stata per lungo tempo “poco più di un normale testimone[1], le cui istanze nei confronti dell’autore del reato sono confluite, sia pure accessoriamente, nell’alveo dell’esercizio pubblico dell’azione penale. I primi ad occuparsi di questo “testimone” del fatto di reato sono stati gli autori della scuola positiva: secondo la “scuola positiva” il reato, non è un fatto isolato espressione di una condizione individuale, ma un comportamento inserito in un contesto sociale e da questo in qualche modo condizionato. In particolare Beccaria non individua le vittime in persone fisiche, ma in tutta la società: è la società che viene danneggiata nel suo ordine sociale dal crimine e come tale deve essere risarcita. Seguendo questa prospettiva la vittima concreta del reato non viene presa in considerazione dal legislatore e di conseguenza non è titolare di nessun tipo di diritto.

Successivamente, nel XVIII secolo, iniziano a prendere piede le teorie bio-antropologiche di Cesare Lombroso secondo il quale il reo non è un individuo libero, ma bensì schiavo dei suoi impulsi biologici, delle sue falle ereditarie. In questa fase la vittima è lo stesso reo in quanto non potendo porre freno ai suoi impulsi il colpevole è vittima di se stesso.

Il vocabolo “vittimologia”, usato per designare lo studio della vittima nel considerare l’azione criminale, fu coniato da Frederick Wertham (psichiatra) nel suo testo The Show of violence (1949), al fine di introdurre una prospettiva sociologica del soggetto offeso dal reato mentre le prime compiute articolazioni della prospettiva vittimologia sono generalmente attribuite a Mendelsohn e von Hentig.

Wertham riteneva che per compiere un omicidio, ovvero un atto violento, fosse necessaria la compresenza dell’impulso individuale aggressivo e della razionalizzazione sociale intesa come il prodotto dell’interazione della personalità con l’ambiente sociale: esclusi i casi di follia vera e propria, l’omicida, o il violento, agiscono solo nei confronti di vittime che, ai loro occhi, sono “l’uomo dimenticato” cioè persone negate, disumanizzate in base agli stereotipi e pregiudizi socialmente costruiti, trasmessi ed acquisiti. “Deumanizzare e degradare la vittima facilita la commissione del reato, poiché consente all’autore di razionalizzare il suo operato e di neutralizzare il senso di colpa rendendo possibile l’esecuzione del reato”. Esempio chiarificatorio sono, per Werthan, le vittime di Landru, donne sole e alla ricerca di una nuova possibilità sentimentale[2].Con Wertham venne così stigmatizzata l’indissolubile unione che lega il criminale alla sua vittima secondo il principio: “ad ogni criminale la sua vittima”

Il primo a studiare la vittima del reato in modo sistematico, al fine di tipicizzarne le caratteristiche e il contributo alla causazione del crimine, fu invece Hans von Henting [3] che nel 1948, continuando quanto iniziato in alcuni articoli di anni precedenti, pubblicò negli Stati Uniti la prima opera a carattere sistematico relativa alla vittima del reato, intitolata The criminal and his victim.

Secondo il criminologo tedesco, nell’interazione dinamica criminale-vittima, la vittima non è, come vuole il diritto penale formale, il semplice oggetto dell’azione altrui, bensì uno dei fattori causali del crimine (il che condurrebbe per molti alle deresponsabilizzazione del reo). In “The criminal and his victim” von Henting elabora il concetto di coppia criminale: “autore e vittima sono legati da una relazione […] che li rende complementari […] dove si strutturano segni, messaggi, gesti significativi che contribuiscono attivamente alla commissione del reato”, il che comporta il superamento di quel presupposto, dominante fino a quel momento, secondo cui vi sarebbe sempre una contrapposizione tra reo, simbolo del male, e vittima, totalmente innocente. Questo studioso del crimine fu anche il primo ad operare una classificazione all’interno della categoria “vittima”, introducendo tre concetti:

  1. CRIMINALE VITTIMA (the doer-sufferer). In base alle circostanze, ciascuno può diventare vittima o criminale. Come nel caso dell’omicidio seguito dal suicidio dell’autore

  1. VITTIMA LATENTE (the potential victim). Indica quel soggetto che presenta caratteristiche inconsce – episodiche o permanenti – ad essere vittima di comportamenti criminosi. Possono essere caratteristiche legate all’ età (bambini, anziani), alla professione svolta (ad esempio, bancari, porta valute), a particolari psicopatologie (ad esempio, malati di mente, depressi), oppure a condizioni sociali (stranieri, appartenenti a minoranze etniche). Esistono poi soggetti con una “predisposizione generale” a divenire vittime (le c.d. vittime nate o collezionisti di ingiustizie), in ragione di loro particolari caratteristiche permanenti o inconsce a rivestire questo ruolo, ad esempio, per espiare una colpa o per provare piacere masochistico.

  1. RAPPORTO VITTIMA-DELINQUENTE (the subject-object relation). Vi è un rapporto dinamico che lega la vittima al criminale; la vittima nel ruolo attivo scatenante l’evento.

Secondo Von Hentig, la vittima può assumere nei confronti del reo un atteggiamento “apatico, letargico”, “sottomesso, connivente”, “cooperante, contribuente”, “istigante, provocante, sollecitante”; e, in relazione all’ultima delle succitate categorie, distingue tra quattro forme diverse a seconda dell’ dell‟istigazione, e, quindi, della partecipazione della vittima alla realizzazione del reato: offesa desiderata, offesa quale prezzo per ottenere un maggior vantaggio, offesa parzialmente dovuta alla azione della vittima, offesa che non si sarebbe avuta senza l istigazione o la provocazione della vittima

L’avvocato Benjamin Mendelsohn è invece il primo ad aver reclamato l’autonomia della disciplina rispetto alla criminologia ed a promuovere un’ azione sociale e politica in favore dei diritti delle vittime. Più nel dettaglio focalizzò la sua attenzione sui crimini violenti, introducendo il concetto di colpa da verificare nella vittima, cioè “quanta responsabilità attribuire alla vittima per l’accadimento dell’evento.

Questi tre studiosi del soggetto passivo del reato hanno fornito importanti elementi al fine di una corretta identificazione delle chiavi di lettura dei fatti di reato che vanno a sommarsi alle varie specifiche competenze di chi è chiamato a svolgere attività, non solo investigativa, ma anche di difesa del reo.

dottssa E. Simola

[1] D. RIPONTI, La vittima nel quadro della giustizia penale, Tutela della vittima e mediazione penale, a cura di G. Ponti, Milano, 1995, p. 56; E. R. ZAFFARONI, En torno de la cuestión penal, Buenos Aires, 2005, p. 11

[2] Tra l’Aprile 1915 ed il Gennaio del 1919, in Francia, Henri Desirè Landru uccise 10 donne seguendo sempre lo stesso schema: le seduceva, si faceva intestare il loro patrimonio, una volta ottenuti i beni le trasportava presso un villino isolato, sito nella campagna di Gambais, e le strangolava, una volta morte, l’uomo provvedeva a sezionare e poi bruciare i loro cadaveri nel forno a legna della cucina. Per tale modus operandi e per la tipologia delle vittime venne chiamato “Barbablu” come il famoso personaggio di Charles Perrault. Landru venne arrestato nel 1919 con l’accusa di truffa ed appropriazione indebita. Durante lo svolgimento delle indagini venne imputato dell’assassinio di 10 donne e di un ragazzino che aveva accompagnato nella villa una delle vittime. Il 30 Novembre del 1921, la Corte di Assise di Versailles condannò a morte Barbablu.

[3] Ricordato come padre della nuova disciplina assurta con lui a piena dignità scientifica

Pubblicato da evasimola

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